Badde Lontana
- 12 aprile 2015 – 23:44
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Una storia nella valle di San Lorenzo…
Il 21 di marzo del 1957, nella valle di San Lorenzo (frazione di Osilo), un grosso masso precipitò dalla collina e, rotolando sino a valle, sfondò il tetto di un mulino per poi cadere sulla culla dove dormiva Pietro Pisano, di soli 8 mesi.
La madre, accorsa per il forte boato, assistette impotente allo strazio: il bimbo era rimasto sepolto dalle macerie. In quell’epoca viveva nella valle dei mulini anche un altro bimbo, che giocava spensierato in quel paradiso. Il suo nome era Antonio Strinna.

“…C’era una voce, in quegli anni, che mi chiamava spesso… Quella della valle, sì, la valle di San Lorenzo, che mi chiamava attraverso una donna. Era una voce che certe notti, soprattutto quando sentivo che la mia partenza da Osilo era ormai imminente, mi accompagnava sino al risveglio. Così al mattino ricordavo tutto, o quasi, di questi incontri. La donna mi parlava come fosse mia madre, mi considerava suo figlio. E raccontava, quasi sottovoce, raccontava della valle, del mulino e del torrente, del suo piccolo Pietro…”.

In un viaggio di fantasia, la madre del bambino ritorna nella valle il 10 di agosto, per la festa di San Lorenzo. Antonio Strinna fa rivivere le emozioni di una mamma che deve affrontare il proprio conflitto interiore. Si narra di una festa, di un momento di gioia, di tregua, che da sempre distoglie la gente dal durissimo lavoro. E c’è la valle – forse da dimenticare – perché colpevole di avere ucciso il bimbo

I versi della canzone descrivono gli stati d’animo e i ricordi di una donna; i suoi pensieri fluttuano in un misto di gioia e dolore, di fede e disperazione, tra il grande amore per quei luoghi incantati e la loro colpevolezza e la difficoltà di concedere perdono.

È la storia di una sfida, di una guerra interiore continua ma inevitabile, di una donna tormentata, ma che decide infine di rivolgersi con tutta la sua forza e la sua fede al santo patrono, San Lorenzo, chiedendogli di prenderle la mano e di condurla verso la comprensione e verso la speranza.

Elisa Monica Magario
Emily Volta
Acabadoras, l’eutanasia in Sardegna
- 15 marzo 2011 – 20:02
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Le sacerdotesse della morte
Era compito di “sa femmina acabadora” procurare la morte a persone la cui agonia diventava inaccettabile. La tradizione voleva che la donna agisse solo in casi del tutto eccezionali. La pratica non doveva essere retribuita dai parenti del morente, poiché il pagare per dare la morte era contrario ai dettami della religione e della superstizione.

Studi approfonditi e analisi della documentazione rinvenuta presso curie, diocesi sarde e musei, hanno accertato la reale esistenza di questa figura. S’acabadura era un atto pietoso nei confronti del malato terminale, nonché un gesto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti: nelle campagne e nei piccoli paesi isolati era difficile raggiungere un medico o un ospedale, sarebbero occorsi molti giorni di cammino. Si dovevano evitare lunghe e atroci sofferenze al malato.

Un inabile immobilizzato, forse anche privo di un letto, costituiva un aggravio della già precaria condizione familiare. Alessandro Bucarelli, medico legale e antropologo criminale dell’Università di Sassari, ha studiato molto e scritto altrettanto sulle acabadoras. A modo loro queste donne conoscevano perfettamente l’anatomia umana; erano “praticas”, levatrici, curatrici e anche donne capaci di uccidere con metodo e precisione.

Si racconta che dopo l’estrema unzione, una volta andato via il prete, la donna arrivasse nella casa del malato, sempre di notte, vestita di nero e con il volto coperto. Durante il cammino verso la sua missione non doveva essere notata o vista da nessuno. La porta della casa veniva lasciata socchiusa: lei entrava senza incontrare nessuno degli altri conviventi, dirigendosi direttamente verso l’unica porta che veniva lasciata aperta, quella della stanza del malato, e lì rimaneva sola con lui.

Nella camera, per prima cosa toglieva tutte le immagini sacre; si pensava che esse prolungassero l’agonia della persona ammalta rallentandone il trapasso. Anche gli oggetti cari al malato si portavano fuori: la pratica avrebbe reso meno doloroso e più veloce il distacco dello spirito dal corpo, liberando la persona dall’attaccamento alla vita terrena.
Il malato, a questo punto, era libero di abbandonarsi alla morte: molti, infatti, morivano durante questa fase. Se tutto ciò non fosse stato sufficiente, si ricorreva al giogo, una miniatura da poggiare sotto la nuca dell’agonizzante. Se lo spirito ancora non voleva staccarsi dal corpo, era palese la colpa del moribondo che, in passato, avrebbe potuto essersi macchiato di un crimine vergognoso: ad esempio, poteva aver bruciato un giogo o spostato i termini limitari della proprietà altrui, oppure era colpevole di aver ucciso un gatto. L’ultimo atto consisteva nell’uso delle mani: la donna non esitava a donare una “bona morte” (atto pietoso e dignitoso) all’infermo, a volte macilento, necrotico o invaso dai vermi.
La morte veniva provocata tramite soffocamento, o con un colpo secco in un punto preciso del cranio. Lo strumento più utilizzato era una sorta di piccolo martello di legno d’olivo, “su mazzolu”,
del quale si trovano ancor oggi alcuni reperti. Si hanno prove di pratiche de s’acabadora fino agli anni venti del ’900, precisamente una a Luras e una a Oristano. L’ultimo caso forse ad Orgosolo nel 1952, che venne archiviato come suicidio. Secondo le riflessioni dell’Alziator, il compito des’acabadora non era tanto quello di mettere fine, nel senso letterale del termine, alle sofferenze dei moribondi con l’utilizzo di uno strumento palesemente inquietante, quanto quello di cercare di accompagnarli alla fine della loro agonia tramite riti di cui si è sicuramente persa la memoria.
Accabadora Strumenti
Ancora oggi, in certi paesi di Sardegna, quando il moribondo tarda ad esalare l’ultimo respiro, i parenti, dopo aver tolto tutte le immagini sacre dalla stanza, avvicinano alla sua testa o ai suoi piedi un pettine o un giogo per tentare di alleviargli le sofferenze, accelerandone la dipartita.
Elisa Monica Magario
Emily Volta
Patrizia Secchi
Foto: http://www.flickriver.com/places/Italy/Sardinia/Ollolai;
http://www.cinemecum.it;http://www.cinemecum.it/newsite/index.php?option=com_content&view=article&id=1358:leggenda-e-realta-dell-accabadora&catid=35&Itemid=248; Francesco Mereu;
http://www.provincia.mediocampidano.it;
http://www.webalice.it/ilquintomoro/storia_tradizioni/due_monumenti_della_natura.html;