Itinerari

Queste fonti carsiche sono le più scenografiche e conosciute della Sardegna nonchè  le più grandi.  Hanno una portata d’acqua che si aggira intorno ai 350 l/s (litri al secondo) e sgorga direttamente dalla parete granitica formando un laghetto; da esso esce poi un torrente che attraversando un boschetto di eucalipti, sfocia dopo un breve corso nel Fiume Cedrino.

Nell’estate del 2009 la Scuola Nazionale di Speleologia Subacquea della Società Speleologica Italiana, unitamente all’associazione ASSO di Roma, contatta Alberto Cavedon per proseguire le esplorazioni profonde nella risorgenza interrotte da O. Isler. Nel Maggio 2010, con una spedizione durata 10 giorni, Alberto sposta il limite precedente sino alla profondità di -135m. Purtroppo, durante l’immersione di punta, per un malore perde la vita l’amico Paolo Costa

L’anno successivo, sempre nel mese di Maggio, Alberto organizza un’altra spedizione, ma purtroppo le condizioni della grotta non erano tali da consentire immersioni in sicurezza. Saggiamente si decideva di annullare l’attività e rimandare il tutto all’anno successivo.

– Domenica 27 Maggio 2012:  Hubert e Sabastien sagolano la risorgenza dalla superficie fino a 80 m, effettuando un aggiornamento del rilievo;

– Lunedì 28 Maggio: Alberto e Stefano (questo ultimo nella veste di videoperatore) sistemano le linee di sicurezza e decompressione con 5 bombole disposte lungo il percorso. Il Cavedon stende la sagola da  80 m fino a 104 m;

– Mercoledì 30 Maggio: l’equipe svizzera prosegue i rilievi all’interno della cavità; Alberto e Stefano, oltre a effettuare filmati e fotografie, sistemano e riposizionano le bombole di sicurezza e decompressione;

– Venerdì primo Giugno: poco prima che Alberto si immergesse, il livello dell’acqua e la corrente aumentarono improvvisamente, probabilmente a causa delle intense precipitazioni del giorno precedente. Dopo un consulto con Francesco Murgia, esperto geologo e speleologo studioso della sorgente, si decide congiuntamente di sospendere l’attività, rimandando ai giorni successivi.

– Sabato 2 Giugno: essendo migliorate le condizioni di portata di Su Gologone, continuamente monitorate, si decide di riprendere le immersioni, effettuando la punta esplorativa. Alle 11,45,  Alberto si immerge con un Rebreather Megalodon e una bombola da 20 lt di bail out con una miscela ternaria. E’ previsto il rendez-vous con Stefano dopo circa 60 minuti. Una seconda squadra con Leo e Massimo raggiungerà i due dopo 90 minuti  dalla partenza per recuperare le bombole disposte lungo il percorso nei giorni precedenti. Alberto, dopo aver raggiunto il precedente limite del 2010, con grandi difficoltà a causa di una violenta corrente presente nelle strettoie, stende 45 m di nuova sagola guida risalendo da 135m a 131, fermandosi in corrispondenza di una stretta e alta frattura impossibile da superare a causa delle sue dimensioni. Suo malgrado, Alberto è costretto a rientrare, controllando inutilmente eventuali altre possibilità di prosecuzione. Incontrato Stefano Cavedon, inizia la lunga e delicata fase decompressiva. Dopo 360 minuti totali dall’inizio dell’immersione, Alberto rivede finalmente la superficie accolto dagli applausi dei numerosi spettatori.

Elisa Monica Magario.

Emily Volta

Un addio a Tom Pouce e Paolo Costa;

un grazie ad Alberto Cavedon.

Su Sterru

Il Monumento naturale Su Sterru, più noto come Voragine del Golgo,  è un inghiottitoio naturale che si apre all’improvviso sull’altopiano del Golgo nei pressi della chiesa campestre di San Pietro, nel Supramonte di Baunei. È ritenuta tra le più profonde voragini a singola campata d’Europa.

Si tratta di una voragine carsica creatasi nel calcare giurese. Si trova ad un’altitudine di circa 400 metri sul livello del mare e ha il suo fondo dopo un salto pressoché verticale di circa 295 metri. La sezione della voragine, di tipo ellitico, si mantiene uniforme per buona parte del suo sviluppo, con un diametro di circa 25 metri che diventano 40 arrivati al fondo. La parte più superficiale dell’inghiottitoio, di circa 25 metri, è formata da rocce nere basaltiche; la restante è invece formata da rocce bianche calcaree.

Elisa Monica Magario

Emily Volta

Fonte: Wikipedia

M.Luisa Usai.

Buggerru: l’inferno nella miniera

  • 19 luglio 2012 – 00:52

“La terra della Calamina”

In Sardegna la lavorazione dei minerali, e dunque il lavoro nelle miniere, risale a tempi remotissimi. Antichi mercanti e conquistatori presero a frequentare le coste dell’isola attirati dalle formidabili ricchezze del sottosuolo sardo.

Nel 1840 venne istituita la nuova legge mineraria che prevedeva la separazione della proprietà del suolo da quella del sottosuolo. Secondo la nuova legge, chiunque poteva richiedere l’autorizzazione ad effettuare ricerche minerarie. Questa disciplina entrò pienamente in vigore in Sardegna solo nel 1848 dopo che, nel 1847, il re Carlo Alberto di Savoia proclamò solennemente la “Fusione Perfetta” tra la Sardegna e gli stati di terraferma appartenenti ai Savoia.

la società mineraria “La Fortuna” decide di svolgere una ricerca nel territorio di Buggerru. L’ingegnere belga Jean Eyquem, che aveva studiato i giacimenti della zona sin dal 1851 e l’ingegnere Bourdiol, nel 1852 scoprirono il più grosso giacimento di calamina (silicati e carbonati di zinco) dell’Italia e forse d’Europa.

Oggi Buggerru (Bugerru o Bujèrru in sardo) è un comune di 1.100 abitanti sito nella regione dell’Iglesiente. Il comune si trova sulla costa occidentale della Sardegna. Sullo sbocco a mare c’è il Canale Malfidano che ha dato il nome alla più importante miniera della zona. la Società “Malfidano” acquistò gli stessi terreni dai Modigliani: il Malfidano, Caitas, Gennarenas, Gruguas e Planu Sartu,e iniziò ad organizzare la propria attività industriale.

Nel XX secolo la popolazione di Buggerru era cinque volte quella attuale e viveva il momento più florido delle sue miniere. In quel periodo il paese veniva chiamato «petit Paris». I dirigenti minerari si erano trasferiti nel borgo con le rispettive famiglie, e lì avevano ricreato un certo ambiente culturale. L’ingegnere Achille Georgiades, un turco naturalizzato greco, arriva in Sardegna da Costantinopoli nel 1903 per dirigere le miniere della “Societé des mines de Malfidano de Paris”.

La sede operativa in Sardegna era proprio a Buggerru. Georgeades era coadiuvato da uno svizzero, tale Steiner. Il francese Georges Perrier gestiva un teatro; inoltre in paese vi erano anche un cinema ed un circolo, il tutto riservato alla ristretta élite dei dirigenti della società francese. Dall’altra parte c’erano, esclusi da tutto questo, 2.500 minatori che lavoravano nelle gallerie, ai quali si aggiungevano altri 4.500 salariati addetti alla cernita e al lavaggio dei minerali, composti in gran parte da donne e bambini.

A Buggerru tutto apparteneva alla società francese: i pozzi, la laveria, le officine, i magazzini, la scuola, le case, la chiesa, il cimitero, e persino la terra, sulla quale nessuno poteva costruire neppure un muretto. Era vietato raccogliere la legna per il focolare; era vietato piantare qualsiasi cosa, neanche un albero.

La «Cantina» era lo spaccio della proprietà aziendale, Il truck system imposto dall’impresa obbligava a comprare lì il pane e gli altri generi alimentari. I prezzi erano più alti degli empori di Cagliari e degli altri paesi della zona. Buona parte dei salari finivano nelle casse della «Cantina». Alla società francese apparteneva, oltre a tali proprietà, la vita stessa degli uomini poiché poteva disporre del loro lavoro, poteva concedere o negare un tetto sotto il quale ripararsi, un luogo nel quale farsi curare nell’eventualità non remota di un infortunio. La silicosi e la tubercolosi erano le malattie più diffuse. Gli operai vivevano in baracche caldissime d’estate e gelide d’inverno, o in enormi cameroni da autentici forzati.

I salari giornalieri erano miserabili: per le donne “cernitrici” e i ragazzi, oscillavano da 0,60 a 1,20 lire; per gli uomini “armatori” da 0,80 a 2 lire: pochissimi arrivavano a 3 lire. Durissime le condizioni di lavoro. Per comprendere il valore reale di questi miserevoli salari basta rapportarli al prezzo di alcuni beni di prima necessità praticati nel 1904 dalla cantina di Buggerru, dove il pane costava da 0,27 a 0,34 lire al kg; la pasta da 0,49-0,55 lire al kg; il vino oscillava da 0,24 a 0,30 lire al litro; l’olio, al litro, 1,25 lire; il formaggio, al kg, 1,50; lo zucchero, 1,50 al kg; il lardo, 1,90 al kg, e il caffè a 2,80 lire kg.

Nelle laverie si lavorava dalle 10 alle 12 ore giornaliere; all’interno delle miniere, si operava dalle 8 alle 10 ore. Non esisteva il giorno di riposo settimanale; non esistevano contratti di lavoro. Nel fossato di Malfidano, fumo, polvere e calore infernale. I minatori dipendevano interamente dai “caporali”, che avevano potere di assumere, licenziare, infliggere multe e punire i lavoratori più sindacalizzati, spedendoli nei punti di lavoro più disagiati. Ciascun minatore doveva provvedere da sé all’acquisto degli strumenti di lavoro, incluso l’olio per la lampada.

Il 2 settembre 1904, non contento di tutte le prepotenze da lui fatte, non curante del malumore che il personale nutriva contro di lui, il signor Georgiades intendeva imporre agli operai che lavoravano all’esterno, un nuovo orario che violava antichissime abitudini da sempre seguite nella miniera.

Il Direttore pretendeva di far coincidere l’orario invernale col primo di settembre. Il nuovo orario prevedeva che la pausa tra i due turni di lavoro, quello del mattino e quello del pomeriggio, fosse ridotta di un’ora: non più dalle 11 alle 14, ma dalle 11 alle 13. Gli operai si ribellarono a questa pretesa. Per i grandi calori estivi erano indispensabili almeno tre ore di riposo durante quella parte della giornata in cui il caldo è eccessivo. Inoltre, essi osservarono che col nuovo orario avrebbero lavorato un’ora in più.

Domenica 4 settembre: pozzi, officine, laveria e magazzini erano deserti. Gli operai, in massa, si diressero verso l’abitato circondando il villino del direttore, interrompendo il lavoro nelle officine e in ogni altro impianto. La società francese corse ai ripari e chiese l’intervento del governo. Allo scopo di mediare tra le parti, arrivarono anche i dirigenti della Lega di resistenza operaia, due militanti socialisti: Giuseppe Cavallera e Alcibiade Battelli.

La trattativa con Georgiades andava per le lunghe. Nel pomeriggio arrivarono due compagnie del 42° reggimento di fanteria, il sottoprefetto e un delegato di pubblica sicurezza. Un gruppo di 200 manifestanti si spostò dalla folla per seguire i militari che avrebbero dovuto alloggiare nel laboratorio dei falegnami. All’interno del capannone alcuni operai allestivano la caserma nonostante lo sciopero. Per questo motivo si infiammarono gli animi.

I duecento minatori, sentendo che in quel locale si lavorava mentre fuori c’era lo sciopero incominciarono a vociare. Fu un attimo. Alle sedici iniziò una sassaiola contro i soldati e contro alcuni crumiri assoldati dalla direzione. I militari imbracciarono i moschetti e spararono sulla folla. La tragedia si consumò in pochi minuti: sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di persone ferite: Felice Littera di 31 anni di Masullas e Giovanni Montixi di 49 anni di Sardara, erano morti. Un terzo, Giustino Pittau di Serramanna, colpito alla testa morì in ospedale. Un mese dopo anche il ferito Giovanni Pilloni perì. Alcune donne e bambini rimasero feriti negli scontri. Le conseguenze dell’eccidio, determinarono una forte e rigorosa presa di posizione dei lavoratori italiani, organizzati attraverso la Camera di Lavoro, la quale proclamava il primo sciopero generale nazionale. Giolitti, allora capo del governo, fu costretto a rassegnare le dimissioni.

Durante la prima guerra mondiale l’attività mineraria entrò in crisi e tutti i cantieri della zona furono chiusi. Nel 1930, dopo la crisi del 1929, per la seconda volta, tutti i lavori di estrazione si fermarono e molti minatori tornarono nei loro paesi d’origine. Nel 1933 le miniere riaprirono i battenti, ma i giacimenti erano ormai sfruttati, poche ricerche, impianti vecchi e personale sfiduciato. Nel 1937 le difficoltà economiche della “Malfidano” determinarono un esodo verso la nascente Carbonia e, da Buggerru, iniziarono i trasferimenti che proseguiranno negli anni successivi. Nel 1939, la Società “Malfidano” decise di associarsi alla Società Mineraria e Metallurgica di Pertusola.

Durante la seconda guerra mondiale le miniere di Buggerru cessarono le attività estrattive. Da all’ora in poi, ogni tentativo di salvare le miniere fu vano. Dal 1990 si può considerare chiuso il periodo storico minerario di Buggerru. Quella miniera non esiste più. È stata dismessa. Lo zinco e il piombo ci sono sempre, ma non conviene più estrarli perché ci sono prodotti che danno maggiori profitti in altre parti del pianeta.

Elisa Monica Magario

Emily Volta

Patrizia Secchi

Un ringraziamento particolare all’Associazione Museo di Buggerru.

  • 29 marzo 2012 – 20:34

Una stazione fantasma

La stazione di Tirso risale agli ultimi anni dell’Ottocento, periodo in cui nacquero le prime linee a scartamento ridotto per il trasporto pubblico in Sardegna. È situata nel territorio comunale di Illorai, lungo la ferrovia Macomer-Nuoro.

Fu inaugurata, insieme all’impianto, il 26 dicembre 1888. La linea fu poi completata nel febbraio 1889, raggiungendo Nuoro. La necessità di realizzare una stazione in quest’area, era ricollegata al progetto di una seconda ferrovia che dallo scalo di Tirso si sarebbe snodata attraverso il Goceano, per poi terminare a Chilivani, sede di un’importante stazione di diramazione della Dorsale Sarda delle allora Ferrovie Reali.

La realizzazione della Tirso-Chilivani fu completata nel 1893 e passò alla gestione delle Ferrovie Complementari della Sardegna nel 1921. Lo scalo era dotato di un fabbricato viaggiatori a pianta rettangolare, esteso su due piani, con linee architettoniche degli anni trenta del Novecento, periodo in cui fu ristrutturato nell’attuale stile.

Affiancato al fabbricato viaggiatori, nel lato ovest, si trova il vecchio magazzino merci, mentre all’altro lato è presente il locale dei servizi igienici, attualmente non utilizzabili. Il fabbricato è stato chiuso nel 1998, e oggi giace in stato di abbandono. A fianco al binario 5 è ancora presente un serbatoio d’acqua, utilizzato in passato per il rabbocco delle locomotive a vapore.

Un sesto binario termina tronco dinanzi al magazzino merci. La stazione di Tirso è attualmente uno scalo ferroviario dell’ARST. Benché situata in aperta campagna e lontana da insediamenti abitati, rivestì in passato un’importante ruolo nella rete secondaria sarda. Intorno alla scalo vi era un brulicare di vita, di tanti viaggiatori e lavoratori: capistazione, casellanti, addetti agli scambi, magazzinieri, tutti con le loro famiglie.

C’erano una chiesa e la scuola elementare. Il pozzo, oggi inquinato, un tempoforniva l’acqua potabile. Nel dopoguerra lo scalo continuò la sua funzione di stazione di diramazione sino al 31 dicembre 1969, data della chiusura del bivio per Chilivani, e da allora in poi ha perso sempre più la sua importanza, fino alla chiusura totale.

Con il passare degli anni, i binari 4 e 5 e parte dell’armamento della linea dismessa per Chilivani, sono diventati una discarica di vecchie littorine, vagoni e materiale rotabile. Un cimitero ferroviario dove le carrozze sono ormai solo scheletri. Un ammasso di ruggine e amianto. La stazione di Tirso è attualmente attiva per la sola linea Macomer-Nuoro con i primi tre binari, ed è situata tra la fermata di Iscra e la stazione di Bolotana.

http://flickrhivemind.net/Tags/illorai/Interesting  (approfondimento album fotografico.  Molto interessante).

L’omicidio nella chiesa

  • 15 marzo 2012 – 21:55

 “Arborea, Arborea, muyren los traydors.”

Nel 1410 scompare l’indipendente Giudicato di Arborea lasciando il posto al marchesato di Oristano, feudo degli Aragonesi. Leonardo Cubello è, da questo momento, marchese di Oristano e Conte del Goceano.

Valor De Ligia è figlio di un maestro di palazzo. Marchiato da Eleonora d’Arborea, diventa  esponente della ristretta burocrazia giudicale. L’aristocrazia terriera è da sempre ostile alla tirannia, e  i De Ligia decidono di lasciare l’isola per circa 10 anni. Nel 1413 si apre una controversia giudiziaria tra Valor De Ligia e il marchese Cubello di Oristano per il possesso dei feudi di parte Ocier e parte  Barigadu. Questi, di diritto, erano del De Ligia ma, dal 1413, dei feudi ne godeva Cubello, a garanzia di un credito di 3.350 fiorini verso l’amministrazione regia.

Vero è che il marchese, specializzato nel doppiogioco, fa i suoi interessi, mentre Valor De Ligia eredita dal padre il fare da traditore.  Fernando I d’Aragona decide di  gratificare Valor De Ligia e suo figlio Bernardo per i servigi prestati alla corona a danno della loro patria sarda. Ma  in Sardegna, De Ligia è condannato a morte per alto tradimento.

Il re ordina a Leonardo Cubello di cedere ai De Ligia il possesso della metà dei dipartimenti del Guilcier e del Barigadu: il marchese accetta in silenzio. Valor riceve dai sudditi del Guilcer  il giuramento di fedeltà e l’omaggio ma, per quanto tenti, non riesce ad ottenere che i barigadesi e i barbaricini – ostinatissimi a non riconoscerlo, né a prestargli obbedienza- facciano altrettanto.

Il De Ligia insiste, vuole riuscire nell’intento,  anche perché qualcuno gli fa capire che può finalmente essere riconosciuto come feudatario anche nel Barigadu, e può anche decidere di porre le sue  condizioni alle popolazioni del posto.

Domenica 19 luglio del 1413 raggiunge il villaggio di Zuri insieme al figlio, accompagnato da una scorta armata. Sul posto ci sono anche, a controllare la situazione, principali barigadesi e alcune compagnie di barbaracini che mal tollerano il tradimento. Nasce una terribile discussione. I De Ligia si danno alla fuga, ma inutilmente, perché circondati dalle fazioni  barbaricine e  barigadesi. A quel punto pensano di rifugiarsi nella chiesa di San Pietro di Zuri con la speranza di trovare asilo… Si sbagliano.

I soldati della scorta dei De Ligia non intervengono, sono immobili e guardano ciò che succede senza intervenire. Valor De Ligia e suo figlio Bernardo vengono raggiunti e trucidati dentro alla chiesa, di fronte alla cappella del Santo al grido “Arborea, Arborea, muyren los traydors”. Quella chiesa, all’epoca, era situata in una valle oggi occupata dall’invaso del lago Omodeo. Si tratta infatti, di un caso di anastilosi in Sardegna. nel 1926 la chiesa fu smontata pietra dopo pietra per evitare che fosse sommersa dalle acque del lago. Venne ricostruita assieme al villaggio in un luogo più sicuro. Oggi si trova nella piana di Zuri, frazione di Ghilarza.

Nonostante i lavori di ricostruzione e i ripetuti tentativi di raschiare le  pietre da parte delle donne del paese, non è stato possibile eliminare tutte le tracce di sangue. Il delitto fu il risultato della sommossa di una popolazione che desiderava ristabilire l’antico giudicato.

Elisa Monica Magario

Emily Volta

Patrizia Secchi

Foto:Antonio Romano; Percorsi di Sardegna.

Fonti: La città dei giudici. Vol. 1 – Franco Cuccu – Libro S’Alvure 1996

una ziggurat in Sardegna

  • 9 gennaio 2012 – 00:23

Il mistero di Monte d’Accoddi

La prima ziqqurat di Ur (Mespotamia) fu costruita nel 2550 a.C. L’altare preistorico di Monte d’Accoddi, conosciuto per la sua forma anche come “Ziqqurath di Monte d’Accoddi”, o “Akkoddi”, nasce sulla base di un’altra antica struttura di circa  4.000 a.C. E’ un monumento megalitico scoperto nel 1954 presso Sassari.

Il monumento, unico nel bacino del Mediterraneo, faceva parte di un complesso di epoca prenuragica, sviluppatosi sull’altopiano a partire dalla seconda metà del IV millennio a.C.

In una prima fase, si insediarono nella zona diversi villaggi di capanne quadrangolari appartenenti alla cultura di Ozieri. Si uniscono: una necropoli con tombe ipogeiche a domus de janas,  un probabile santuario con menhir, lastre di pietra per sacrifici e pietre sferiche  forse simboleggianti il Sole e la Luna. Successivamente, probabilmente genti  appartenenti alla cultura di Ozieri, costruirono un’ampia piattaforma sopraelevata a forma di tronco di piramide (27 m x 27 m, di circa 5,5 m di altezza) alla quale si accedeva mediante una rampa. Sulla piattaforma venne eretto un ampio vano rettangolare rivolto verso sud (12,50 m x 7,20),  identificato con una struttura templare conosciuta come “Tempio Rosso”,  la maggior parte delle superfici è infatti intonacata e dipinta con  ocra rossa. Sono presenti anche tracce di giallo e di nero.

All’inizio del III millennio a.C., la struttura   fu probabilmente abbandonata (sono state rinvenute  tracce di incendi). Intorno al 2800 a.C., venne completamente ricoperta da un colossale riempimento costituito da strati alternati di terra, pietre, e  un battuto di  polveri di marna calcarea locale. Il riempimento è contenuto da un rivestimento esterno in grandi blocchi di calcare. E’ creata in seguito, una seconda grande piattaforma troncopiramidale a gradoni (36 m x 29 m, di circa 10 m di altezza) accessibile per mezzo di una seconda rampa lunga 41,80 m, costruita sopra quella più antica. Questo secondo stantuario, conosciuto anche come “Tempio a gradoni”, ricorda nel suo complesso le contemporanee ziqqurat mesopotamiche.

L’edificio conservò la sua funzione di centro religioso per diversi secoli e venne abbandonato con l’età del bronzo antico.  Intorno al 1800 a.C. era ormai in rovina e venne utilizzato saltuariamente per le sepolture. Durante la seconda guerra mondiale fu danneggiata la parte superiore a causa di  scavi di trincee.  Sull’altura vennero impiantate delle batterie contraeree. Gli scavi archeologici furono condotti da Ercole Contu (1954-1958) e da Santo Tinè (1979-1990).

Sul monumento vi sono tuttora solo delle ipotesi sia sul nome sia sulla tipologia del monumento stesso. Il nome akkoddi sembra derivare dal sardo arcaico Kodi che significava  monte,  da cui deriverebbe l’altro nome sardo Kodina o Kudina che sta ad indicare un suolo roccioso.

L’altare preistorico di Monte d’Accoddi con  la sua struttura a ziqqurath,  rappresenta il più antico esempio in Europa di questa  tipica architettura mesopotamica. Secondo la concezione religiosa di quegli antichi popoli, il cielo e la terra si univano per mezzo di un monte,  mentre una divinità scendeva tra gli uomini. L’altare sulla torre era perciò considerato il punto di incontro tra umano e divino, e si pensa che un gran numero di animali – sicuramente bovini – venissero sacrificati per propiziare la rigenerazione della vita e della vegetazione. Ai piedi della piramide  sono stati ritrovati  grandi accumuli composti da resti di antichi pasti, nonchè oggetti utilizzati durante  riti propiziatori.

Si ipotizza che la simmetria della ziqqurath riprodurrebbe le stelle della Croce del Sud, oggi non più visibile dal sito di Monte d’Accoddi, a causa della precessione degli equinozi; un cambiamento di  5000 anni confermato dal fisico Gian Nicola Cabizza.

Elisa Monica Magario

Emily Volta

Fonte: Wikipedia

Foto:

Antonio Cuboni;

immagini in 3D, Liceo Scientifico Statale G. Spano Sassari;

Shardanapopolidelmare.forumcommunity.net

Oltre la pietra

“A sette anni cercavo le pietre, andavo nelle cave e gli scalpellini mi prendevano in giro, poi iniziarono a darmi i massi migliori da scolpire”. Per Sciola “i suoni ci sono da sempre. La pietra è la memoria universale del mondo”. Le sue sculture non sono però strumenti musicali, ma litofonie, “a me interessa la forma, l’elasticità”.

Pinuccio Sciola nasce a San Sperate il 15 marzo 1942. Artista di fama internazionale, è conosciuto per la sua attività nella promozione dei murales a San Sperate e per le sue sculture. Nel 1996 la sua ricerca personale sulle pietre e la loro natura intrinseca, e le tecniche di incisione sperimentate lo portano verso una musicalità della pietra.

Le pietre sonore sono sculture simili a grandi menhir (principalmente calcari o basalti) che, una volta lucidate con le mani o con piccole rocce,risuonano. Le proprietà sonore delle sculture sono realizzate applicando le incisioni parallele sulla roccia. Queste sculture sono capaci di generare dei suoni molto strutturati, con differenti qualità secondo la densità della pietra e l’incisione, suoni che ricordano il vetro o il metallo, strumenti di legno e perfino la voce umana. Le pietre sonore, presentate per la prima volta nel 1997 a Berchidda, sono state poi esposte nel 1998 alla Biennale europea, nel 2000 all’Expo Internazionale di Hannover e poi all’Avana. Due anni dopo, il Müvèszet-MalomSzentendre di Budapest gli dedica una grande mostra antologica. Nel 2003, a seguito della sua collaborazione con l’architetto Renzo Piano, una sua gigantesca Pietra Sonora viene scelta per la Città della musica a Roma; altre sue opere vengono esposte nella Piazza della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi e nell’Arsenale di Venezia. Nel 2004 è a Parigi per le Celebrazioni di Jacques Prevèrt: «Eloge de la nature» nei Jardin duLuxembourg e «LesFeuillesMortes», omaggio di Pinuccio Sciola à Jacques Prévert. Alla fine dell’esposizione, lo scultore ha fatto dono delle sculture per una installazione permanente nel giardino della casa di Prévert a Omonville-la-Petite. Due strati (foglie) verranno depositati sulla tomba di Jacques Prévert. Dello stesso anno è l’esposizione a Lussemburgo e nel 2005 sette statue vengono collocate nello scalo internazionale dell’Aeroporto di Fiumicino per la mostra La Poesia e la Pietra. Espone nei Vivai della Villa Reale di Monza e, al termine, l’opera Basalti sonori viene offerta in dono al Comune di Monza. Per rendere comunque meglio l’idea è meglio guardare il cortometraggio da noi postato. Buona visione.

La regia è del mimo Franco Fais (Monsieur Bubè).

Un grazie particolare al mio caro amico Franco Fais.

Elisa Monica Magario

Emily Volta

Profumo di poesia in mezzo alla natura

Nella marina di Arbus, ancora oggi sopravvive – scampato ai vandali – un ginepro vecchissimo che ha dato origine a questa bellissima e romantica storia che stiamo per raccontarvi.

I protagonisti sono un ginepro secolare, il Signor Efisio Sanna, ex minatore di Montevecchio, e la sua compagna di vita, Orlanda. I signori Efisio e Orlanda amavano la natura e la poesia. Amavano trascorrere bei momenti di vita sulle spiagge di Pistis e Torre dei Corsari. Spesso amavano stare all’ombra di un bellissimo e gigantesco ginepro, vecchio di secoli, al quale i nostri due protagonisti si erano pian piano affezionati.

Un giorno si venne a sapere che quell’albero, vecchio ma non stanco di vivere, era stato preso di mira da parte di qualcuno che voleva farne legna da ardere. Efisio e Orlanda non potevano permettere che il “loro vecchio amico” facesse una fine tanto crudele, e così decisero di proteggerlo.

Escogitarono un piano bizzarro ma efficace. Senza indugi decisero di adottare il ginepro trasformandolo in un’abitazione dalla quale nessuno avrebbe potuto cacciarli. Utilizzando ciò che la natura metteva loro a disposizione crearono un rifugio incredibilmente romantico: la chioma dell’albero intrecciata con rami di elicriso fungeva da tetto, le pietre da  pavimento. Diventò un luogo caldo e accogliente. Efisio ed Orlanda vi si trasferirono durante i mesi estivi. Vissero in quella “casa” facendo a meno di tante cose, ma ricambiati dall’amore che da sempre li univa.  I versi in rima erano da sempre la grande passione di Efisio: scriveva tante poesie e le affiggeva in vari punti della casa.

Col tempo molte persone vennero a conoscenza di quel luogo magico che si trasformò in un vero proprio spazio d’incontro, riflessione e divertimento. I due compagni scrivevano poesie e le cantavano insieme ai visitatori…a volte si era davvero in tanti, e il divertimento andava avanti per ore, anche per tutta la notte. Gli anni passavano, ma ormai anziani, a malincuore, i signori Sanna dovettero abbandonare la casa per tornarci solo di tanto in tanto. Successe però, che durante la loro assenza il rifugio continuò ad essere frequentato da chi desiderava farsi avvolgere da quella magica energia, dai profumi di ginepro ed elicriso,  da un silenzio rotto solo dal rumore del mare. Un ambiente ideale per scrivere versi su versi lasciati lì assieme agli altri. Efisio e Orlanda li  ritrovavano al loro rientro, in estate: leggevano e rispondevano con altrettante rime.

Si creò sempre più un vero e proprio rapporto epistolare che durò nel tempo.  Il peso degli anni e la morte di  Efisio posero fine a questa magia.

Il luogo oggi è quasi del tutto in stato di abbandono, anche se le amministrazioni comunali pare abbiano deciso per il ripristino della casa. Gli ospiti e i turisti  non mancano mai, e molti di loro, ancora oggi, lasciano dei messaggi nella cassetta delle lettere sistemata nell’ingresso; altri amici, visitando il luogo, potranno sempre ritrovarli.  Orlanda ci dice che Efisio morì felice sapendo di lasciare la sua incantata dimora in eredità a visitatori, turisti e curiosi studenti di architettura. Questa, ancora oggi, è “la casa del poeta”.

Elisa  Monica Magario

Emily Volta

Patrizia Secchi

Foto di Gian Piero Putzolu.

I quadri sui quali sono  riportate poesie o frammenti di esse, sono di Giusi Zichina Monteduro.

Grazie Giusi…

Due amici di vecchia data

Su una banconota spagnola, non ricordo quale, vi erano stampati il Teide e un albero millenario. Nel 1991 decisi di andarli a visitare entrambi, a Tenerife: l’albero e la montagna. Più che dal Teide  rimasi colpita dall’albero ad Icod de los Vinos:  il famoso “Drago” (maschio della dracena).

All’epoca qualcuno mi spiegò che si trattava di un esemplare di 2000 anni. Pensai subito che se Gesù Cristo fosse passato da quelle parti avrebbe potuto ammirarlo.  Qualche anno fa mi trasferì a Tenerife per lavoro, e  non mancai di tornare a salutare quell’albero magico.

Più che mai riuscivo a giustificare la presenza di alberghi, luoghi di ristoro, vendita di prodotti e souvenir;  la fama di quell’antico  gigante era  legittimamente meritata. Oggi vivo nuovamente in Sardegna e… sorpresa: un giorno il destino volle che incontrassi Giusi Zichina Monteduro. Fu  lei a farmi notare che alle Canarie non avevo visto nulla di straordinario poiché mi rivelò dell’esistenza di due olivastri millenari situati proprio vicino alla sua cittadina: Tempio Pausania.

L’olivastro  più giovane ha un’età di soli 2000 anni, quello più anziano, invece, ne ha circa 4000.  Sono gli olivastri  di Santo Baltolu di Karana, località a pochi chilometri da Luras.  S’Ozzastru, il più vecchio, ha 14 metri di circonferenza e 12 metri di altezza.

La chioma copre una superficie di 600 metri quadri. È uno degli alberi più vecchi del mondo. Nel 1991, questo “patriarca della natura”, è stato dichiarato Monumento Naturale, rientrando così nella lista dei “Venti Alberi Secolari Italia”, da tutelare e dichiarare Monumento Nazionale con decreto ministeriale.

Solo tre mesi fa venni a sapere che il Drago di Tenerife è datato dai 600 ai 1000 anni. Nessuna delusione, ma solo una gradita sorpresa. Grazie, Giusi.

Elisa Monica Magario

Emily Volta

Patrizia Secchi.

Echi del passato

Nel 1258, le lotte tra i Pisani e i Visconti per il possesso della Sardegna Orientale e della Gallura, costrinsero le popolazioni che abitavano la pianura di Sessei a ritirarsi verso l’interno. A quasi 800 metri sopra il livello del mare, ospitati dalle genti che già abitavano quei luoghi, quelle etnie costruirono le loro nuove case.

come voleva la tradizione, le donne costruirono la chiesa, intitolata a Sant’Elena. Luoghi bellissimi, magici,  adatti ai pascoli e all’agricoltura; terreni fertili tra  montagne, valli e fiumi. Poco distante il mare. Un paradiso che durò fino a quando lo Stato italiano  diede inizio al  disboscamento della Sardegna. La maggior parte del legname servì per  costruire le traversine, utilizzate per tutta la rete ferroviaria italiana.

Nel 1258, le lotte tra i Pisani e i Visconti per il possesso della Sardegna Orientale e della Gallura, costrinsero le popolazioni che abitavano la pianura di Sessei a ritirarsi verso l’interno. A quasi 800 metri sopra il livello del mare, ospitati dalle genti che già abitavano quei luoghi, quelle etnie costruirono le loro nuove case.

Gairo vecchia

come voleva la tradizione, le donne costruirono la chiesa, intitolata a Sant’Elena. Luoghi bellissimi, magici,  adatti ai pascoli e all’agricoltura; terreni fertili tra  montagne, valli e fiumi. Poco distante il mare. Un paradiso che durò fino a quando lo Stato italiano  diede inizio al  disboscamento della Sardegna. La maggior parte del legname servì per  costruire le traversine, utilizzate per tutta la rete ferroviaria italiana.

La superficie di quei territori non era  più protetta dalla vegetazione, un tempo lussureggiante, poi divenuta rara o addirittura sparita. Come conseguenza, un’inarrestabile erosione. La legge fisica che regola il fenomeno dell’erosione geologica, afferma che il potere di trascinamento dell’acqua (l’erosione geologica appunto) cresce con la sesta potenza rispetto al crescere della velocità dell’acqua stessa.

Il che significa che raddoppiando la velocità di scorrimento sul terreno, l’acqua acquisisce un potere di trascinamento 64 volte maggiore. La prima alluvione di cui si ha notizia giunse nel lontano 1880, a Novembre. Una pioggia violenta, caduta ininterrottamente per due giorni, causò ingenti danni al paese e alle campagne: frane, smottamenti, muri a secco crollati, tetti scoperchiati, i viottoli in selciato del paese trasformati in ruscelli, la circolazione dei carri a buoi paralizzata.

Alla  fine del mese di Marzo del 1927,  si ebbe una seconda e ben più grave alluvione che mise la popolazione di fronte ad uno scenario peggiore della precedente. Il nubifragio comportò anche questa volta diversi allagamenti, frane e smottamenti che arrivarono fino alla linea ferroviaria, interrompendone lo scorrimento tra le località Taquisara e Baccu Nieddu. Alcune case pericolanti, necessitarono di essere demolite. Una  quindicina di famiglie che le occupavano furono costrette a trasferirsi sul lato opposto al rio Pardu, fra Serra Taquisara e Serra Serbissi.

Le istituzioni di quel tempo fecero poco o niente per risollevare il Paese dai danni subiti: solo la tenacia e la determinazione della laboriosa popolazione, consentirono la lenta ripresa. L’intervento dello Stato italiano si limitò all’applicazione della legge n°445 del 1908, nata inizialmente per la Basilicata, la Calabria ed in seguito estesa ad altre zone sinistrate d’Italia.

Un intervento che si limitò allo  spostamento delle famiglie più colpite dal nubifragio, ma non al consolidamento dell’abitato con opere di bonifica, risanamento e stabilizzazione del territorio su cui era costruito. Nel mese d’Ottobre 1940  seguì una  terza alluvione che causò ulteriori gravissimi danni. La popolazione decise di dare inizio alla costruzione di un nuovo nucleo di case a monte del vecchio centro, dove oggi sorge l’attuale paese ,  Gairo Sant’Elena. Alcuni torrenti, come l’Uri e il Cedrino esondarono, invadendo altri centri abitati: Oliena, Arzana, Baunei, Jerzu, Loceri, Tortolì, Taluna.

Nel 1951 uno straordinario evento meteorologico, cominciato con un temporale nella notte tra il 12 ed il 13 ottobre e terminato il 18 ottobre, provocò l’intero dissesto del paese che fu dichiarato non abitabile. Fu un episodio tremendo: nell’area più colpita, caddero oltre 1300 mm di pioggia in soli 4 giorni. Nel solo Paese di Gairo Vecchio si contarono 90 abitazioni tra distrutte e danneggiate, nuove gigantesche frane e numerosi smottamenti.  Un  po’ ovunque miriadi di alberi sradicati e letteralmente spazzati via, strade erose  o ancora, totalmente seppellite sotto cumuli di detriti fatti franare dall’impeto furibondo delle acque, distruzioni di opere murarie e ponti già ricostruiti dopo le precedenti alluvioni, le campagne rese irriconoscibili dalle inondazioni, interi poderi ingoiati dalla furia dell’evento.

La costruzione dei nuovi ricoveri era prevista a Taquisara, dove fu realizzato il primo gruppo di case  comunque non sufficienti ad ospitare tutta la popolazione A Gairo Vecchio, il 2 gennaio 1952, dopo la recente alluvione, la polizia entrò con la forza nel municipio occupato nella notte di San Silvestro del 1951: 150 donne incinte facevano lo sciopero della fame per protestare contro lo stato d’abbandono in cui era lasciato il paese da parte dello Stato. Secondo le testimonianze gli aiuti non furono equamente distribuiti fra la popolazione. Sembra che  i paesani più abbienti, probabilmente con il beneplacito dell’Amministrazione dell’epoca, riuscissero ingiustamente ad accaparrarsene parti cospicue.

Le donne, appoggiate dalla popolazione,  chiedevano l’intervento del prefetto affinché facesse i controlli necessari ed appurasse quanto stava accadendo. Seguirono scontri violenti fra polizia e dimostranti ;  la polizia aprì il fuoco ferendo alcune delle persone che manifestavano: quattro agenti della Polizia di Stato  ed un Carabiniere,  restano feriti.

Il prefetto inviò un proprio delegato che provvide a trovare una soluzione equa alla situazione creatasi. Superata la crisi, nei successivi giorni di Gennaio 1952 si decise di continuare la ricostruzione delle abitazioni ed il trasferimento della comunità verso la più sicura zona calcarea e non franosa di Taquisara. Furono così avviati i lavori di scavo delle fondazioni per la costruzione di altri alloggi.

Il sole che sorge sul mare ed il monte Perda ‘e Liana, oggi costituiscono il simbolo dello stendardo del comune di Gairo, realizzato dal pittore gairese Franco Ferrai.

Elisa Monica Magario

Emily Volta

Foto di Francesco Saponi e Massimiliano Maddanu